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Errori di comunicazione e rischio di contagio percettivo del coronavirus

Chi si occupa professionalmente di comunicazione in emergenza dovrebbe avere sempre bene a mente la differenza tra l’intenzione di chi comunica, il significato che chi comunica attribuisce alle proprie parole e le possibili conseguenze che tale comunicazione potrebbe avere - anche per effetto della inevitabile interpretazione soggettiva che ogni uomo esercita sull’altrui dire e fare - sulla percezione dei rischi, sulla presa di decisioni e sui conseguenti comportamenti attivi e passivi delle persone.


Quali sono dunque gli errori, per lo più metalinguistici, che si possono commettere quando si comunica una emergenza come quella del coronavirus in Italia?


1) Confondere il significato con l’effetto: se vi dicessi: «Non vi preoccupate» e voi iniziaste a preoccuparvi, dovrei prendere atto del fatto che nonostante abbia le migliori intenzioni nel dirvelo, l'effetto che avrei sortito sarebbe suscitare in voi uno stato di preoccupazione.

Se lascio trapelare una notizia allarmante prima della sua ufficialità, devo assumermi la responsabilità della conseguente reazione irrazionale che le persone potranno avere, sebbene reagiscano principalmente per effetto della propria interpretazione soggettiva, anziché soltanto in base al mero e più oggettivo significato lessicale delle informazioni apprese.

Che cosa pensereste se vi telefonassi alle 2,00 del mattino esordendo con: «Non si preoccupi…»? Molto probabilmente iniziereste a preoccuparvi.


Cerchiamo quindi di capire come sia possibile evitare di incorrere in tale errore:


a) ricordandosi che il significato è solo l’interpretazione che ognuno di noi dà alle proprie e alle altrui parole, così come ai propri e agli altrui comportamenti;


b) ricordandosi anche che l’effetto è invece il comportamento verbale e non verbale che le persone manifestano in conseguenza del significato che hanno attribuito (consciamente e inconsciamente) alla altrui comunicazione.


Potremmo discutere a lungo su quanto chi comunica e il destinatario contribuiscano giacché la comunicazione abbia un certo effetto, ma certamente è fuori discussione che chi comunica deve fare in modo che si riduca al minimo lo scarto tra significato che egli attribuisce alle sue parole e gli altri possibili significati attribuibili.

Il comunicante ha inoltre l’onere della rettifica se il messaggio che ha espresso sortisce un effetto diverso da quello che aveva intenzione di ottenere.


2) Confondere la chiarezza con la persuasività: i messaggi che da più parti vengono dati ultimamente anche attraverso i social-media, sintetizzabili in “restatevene a casa”, sono certamente chiari e comprensibili ma, almeno a giudicare dal comportamento che le persone continuano ad avere, direi che siano tutt’altro che convincenti.

Se le persone prendessero le decisioni razionalmente basterebbe indirizzare loro un messaggio comprensibile e logico per convincerle ad agire in un dato modo. Purtroppo, però, noi tutti prendiamo decisioni inconsciamente. Le giustifichiamo a noi stessi e agli altri in modo da renderle razionalmente accettabili, e infine ci diamo il permesso per agire di conseguenza.

Vi è mai capitato di acquistare qualcosa di molto costoso sebbene non ne aveste un urgente ed effettivo bisogno? In situazioni simili le persone tendono a prendere le decisioni che le soddisfanno di più, anziché le più sensate. Solo dopo aver preso inconsciamente la decisione, adducono le più fantasiose giustificazioni logiche per ottenere il consenso ad agire di conseguenza, oppure per giustificare a posteriori le proprie decisioni illogiche.


Or, dunque, per evitare di incorrere in questo secondo errore metalinguistico di comunicazione, ricordiamoci queste due semplici distinzioni:

a) la chiarezza della comunicazione è rappresentata dalla sua comprensibilità e dalla sua logicità;

b) la persuasività, invece, è rappresentata dall’efficacia motivazionale della comunicazione nel convincere (anziché costringere o far sentire costrette) le persone di agire, inconsciamente e consciamente, in uno specifico modo.


Quindi, volendo riassumere potremmo dire che la comunicazione è efficace quando, oltre ad essere corretta, comprensibile, logica e quindi sensata, è anche convincente. Ovvero, quando è formulata in modo tale da far venire la voglia alle persone di agire in un certo specifico modo.

Tornando al messaggio: «Restate a casa…» e similari, è facile ora comprendere perché, sebbene sia comprensibile, tale “esortazione” prescrittiva non stia sortendo granché l’effetto voluto:

- in primis perché è formulata come un ordine da eseguire senza discutere;

- in secundis perché, nonostante il messaggio sia sensato e ben argomentato dal punto di vista logico, fonda la sua debole persuasività soltanto sulla prospettazione di nefaste conseguenze in caso di inadempienza alla “prescrizione”. Utilizza la paura come unica leva motivazionale! Vi è mai capitato di decidere per piacere, anziché per paura? Certamente sì, immagino. Ecco il punto: le persone decidono perché attratte dal piacere o perché spinte dalla paura. Piacere e paura si trovano in termini motivazionali ai due estremi opposti.

Ognuno di noi, in una certa qual misura assai soggettiva, è attratto dal “piacere” e spinto dalla “paura”, perché ha sviluppato inconsciamente una spiccata sensibilità motivazionale in un senso o nell’altro.


La domanda che potreste pormi a questo punto potrebbe essere: «Come faccio a formulare un messaggio persuasivo per una moltitudine di persone se non ne conosco la prevalente sensibilità motivazionale?».

E la mia risposta potrebbe essere semplicemente questa: «ad esempio, formulando il messaggio in modo motivazionalmente equilibrato. Ovvero che contenga sia la prospettazione di nefaste conseguenze in caso di inosservanza, sia la prospettazione di possibili conseguenze “piacevoli” in caso di osservanza.».


3) Trascurare gli effetti collaterali dell’avverbio di negazione “non”: sebbene tutti conoscano le regole di corretto utilizzo dell’avverbio di negazione “non”, pochi ne conoscono invece gli effetti collaterali legati alla sua intrinseca efficacia persuasiva a livello inconscio (cioè fuori dalla normale sfera di controllo intenzionale delle persone). Facciamo ora un piccolo esperimento per capire meglio. Leggete il seguente messaggio stando molto attenti: «Non immaginare una fetta di limone, con il sapore pungente e acido del suo succo che si spande sulla tua lingua. Ti suggerisco anche di non pensare, ora, a come lo spandersi del succo di limone farà salivare la tua bocca. Permettimi anche di suggerirti di non far caso a come il succo di limone ha effetto sulla tua salivazione, proprio ora. Intanto che ti concentri sulla tua tendenza alla salivazione, fai caso a che cosa ti sta succedendo adesso.» Che cosa ti è successo mentre leggevi? Io lo so, ma potrei sbagliarmi. Proviamo con una locuzione più semplice: «Non pensare a un elefante fucsia a pallini gialli che suona la tromba.». Non vorrai mica dare la colpa a me di ciò che hai pensato? Io te l’ho detto di “non pensare”. Ti ho anche avvisato, o no?

Proviamo di nuovo: «Il coronavirus non è mortale, soprattutto se si riesce a “non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani” (come testualmente scritto al punto “g” dell’Allegato 1 del DPCM dell’8 marzo 2020 in materia di misure urgenti per il del contagio…)».

Allora la domanda più utile da farsi a questo punto sarebbe: Come posso sfruttare i potenti effetti collaterali dell’avverbio di negazione “non” per rendere più persuasivo un messaggio?

Prima di darti la risposta e farti poi qualche esempio, mi soffermerei sull’utilizzo persuasivamente errato dell’avverbio di negazione “non”.

Comunemente utilizziamo tale avverbio per escludere o negare il concetto espresso dal termine cui si premette, oppure per esprimere un concetto diverso da quello implicito nel vocabolo stesso. E quindi utilizziamo, ad esempio: «Non ti agitare» anziché «Stai calmo.», perché hanno un significato equivalente, ignari del fatto che l’effetto delle due locuzioni e molto diverso. L’uomo però, essendo tutt’altro che un essere vivente soltanto razionale, reagisci a due livelli: a livello inconscio, generando immagini mentali, pensieri e sensazioni, a livello conscio, interpretando e razionalizzando. Per cui, sebbene egli comprenda il significato di «Non pensare al coronavirus», penserà immediatamente al coronavirus, facendosene magari una immagine mentale e provando di conseguenza la sensazione, ad esempio, di paura irrazionale. Tale esperienza “sinestesica” (intesa come fenomeno neurologico che si realizza quando stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo), insinuerà nella sua mente un nuovo “tarlo” che inevitabilmente ne altererà lo stato d’animo, con ricadute sulla presa di decisioni e sulla scelta dei comportamenti.

Quando diciamo a qualcuno frasi del tipo: «Non voglio dire che ti sbagli…», dovremmo intanto soffermarci sul fatto che: stiamo dicendo di non voler dire, proprio ciò che invece diciamo testualmente subito dopo l’avverbio di negazione! In più, ci esponiamo al rischio che il nostro interlocutore inizi a pensare proprio a ciò che volevano evitare egli pensasse.

Ora che abbiamo capito meglio come usare male, persuasivamente parlando, il “non”, rispondo finalmente alla domanda: «Come posso sfruttare i potenti effetti collaterali dell’avverbio di negazione “non” per rendere più persuasivo un messaggio?».

Stante il fatto che il “non” ha il “potere” duplice di rendere razionalmente accettabili i messaggi e, al contempo, permettere di far pensare qualcosa a qualcuno senza dirgli “pensaci”, basterebbe utilizzare tale avverbio per formulare frasi del tipo: «Non sto dicendo che devi restartene a casa tutto il tempo.». Oppure: «Non sto dicendo che se vai in giro ti becchi il coronavirus, finisci in intubato in qualche reparto di terapia intensiva e poi muori. Non si può morire di coronavirus. Non devi avere tutta questa paura di uscire di casa in questo periodo di pandemia. Non sto dicendo che la situazione è molto grave, ma certamente bisogna essere molto prudenti.».

Detto tutto ciò, non sto qui a dirvi che applicare i semplici principi che vi ho illustrato in questo articolo può rendervi dei comunicatori efficaci. Se fossi in voi non li applicherei! laughing


Felix B. Lecce


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