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Involuzione del mondo, evoluzione delle pandemie.

Immagine del redattore: Roberto Deidda DamusRoberto Deidda Damus

L'ipnomentalismo è una disciplina che ha tra i suoi elementi fondamentali l'osservazione e l'ascolto . Osservare con sereno disincanto, ascoltare con smaliziata attenzione. Ogni dettaglio, soprattutto quelli che la misdirection, ovvero, lo "sviamento"che i mezzi di comunicazione di massa,o più comunemente detti "di informazione", quotidianamente ci somministrano. Ci si vuol fare focalizzare, concentrare, su un'unica visione, mentre,con la mano che resta nascosta dalle telecamere si opera per realizzare "il trucco", proprio come in qualsiasi spettacolo di magia. Perché vi dico questo: perché in quarantena, ci manca TUTTO, tranne il tempo per ascoltare e osservare e, per quanto mi riguarda, continuare ad informarmi studiare approfondire e scrivere.



È proprio per questo che , nell'invitarvi ad non abbassare la guardia, non solo nei confronti del virus, ma anche di tutto quanto, una sciagurata situazione quale quella attuale, possa aver smosso dal punto di vista degli equilibri di potere e degli enormi interessi economici che sottende. "Cui bono", chi ne beneficia? dicevano i romani. Questa è la prima domanda che, non solo un ipnomentalista ma anche ogni persona di buon senso deve porsi. Gli scenari politici che stanno sotto ad una situazione quale quella che stiamo vivendo, sono sotto agli occhi di tutti. E su questo, come è tradizione da parte dell'Accademia, desidero lasciare la massima autonomia di pensiero, nel massimo rispetto di ognuno di Voi. Però, non posso esimermi, vista la grande quantità di tempo che tutti noi, aimé attualmente abbiamo a disposizione, di presentarvi un estratto da un libro che ho appena finito di leggere. Un passaggio del libro “spillover”, di David Quammen, che trovo davvero significativo. Un po’ lungo, ma vale la pena di leggerlo.

“In un elenco dei momenti topici e più ansiogeni di questa saga (delle malattie infettive), oltre a Machupo non possono mancare Marburg (1967), Lassa (1969), Ebola (1976), HIV-1 (riconosciuto indirettamente nel 1981, isolato nel 1983), HIV-2 (1986), Sin Nombre (1993), Hendra (1994), influenza aviaria (1997), Nipah (1998), febbre del Nilo occidentale (1999), SARS (2003) e la tanto temuta ma in ultima analisi poco grave influenza suina (2009).... Si potrebbe pensare che questa lista sia una sequenza di eventi tragici ma non correlati, una serie di sfortunate coincidenze che ci hanno colpito per motivi imperscrutabili. Messa così, Machupo, HIV e SARS sono, in senso sia figurato sia letterale, «calamità naturali», dolorosi accidenti alla pari di terremoti, eruzioni vulcaniche e meteoriti, di cui si possono forse minimizzare le conseguenze ma che rimangono inevitabili. È una posizione passiva e quasi stoica, ed è sbagliata. Che sia chiaro da subito: c’è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili, che emergono da ospiti inaspettati e che creano serissime preoccupazioni e timori per il futuro negli scienziati che le studiano. Come fanno questi patogeni a compiere il salto dagli animali agli uomini e perché sembra che ciò avvenga con maggiore frequenza negli ultimi tempi?

Per metterla nel modo più lineare possibile: perché da un lato la devastazione ambientale causata dalla pressione della nostra specie sta creando nuove occasioni di contatto con i patogeni, e dall’altro la nostra tecnologia e i nostri modelli sociali contribuiscono a diffonderli in modo ancor più rapido e generalizzato. Ci sono tre elementi da considerare. Uno. Le attività umane sono causa della disintegrazione (e non ho scelto questa parola a caso) di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma. Tutti sappiamo come ciò avvenga a grandi linee: la deforestazione, la costruzione di strade e infrastrutture, l’aumento del terreno agricolo e dei pascoli, la caccia alla fauna selvatica (strano, quando lo fanno gli africani è «bracconaggio», quando lo fanno gli occidentali è uno «sport»), l’attività mineraria, l’aumento degli insediamenti urbani e il consumo di suolo, l’inquinamento, lo sversamento di sostanze organiche nei mari, lo sfruttamento insostenibile delle risorse ittiche, il cambiamento climatico, il commercio internazionale di beni la cui produzione comporta uno o più problemi sopradescritti e tutte le altre attività dell’uomo «civilizzato» che hanno conseguenze sul territorio. Stiamo, in poche parole, sbriciolando tutti gli ecosistemi. Non è una novità recentissima. Gli esseri umani hanno praticato gran parte di queste attività per molto tempo, anche se a lungo con l’ausilio di semplici strumenti. Oggi però siamo sette miliardi e abbiamo per le mani moderne tecnologie, il che rende il nostro impatto ambientale globale insostenibile. Le foreste tropicali non sono l’unico ambiente in pericolo, ma sono di sicuro il più ricco di vita e il più complesso. In questi ecosistemi vivono milioni di specie, in gran parte sconosciute alla scienza moderna, non classificate o a malapena etichettate e poco comprese.

Due. Tra questi milioni di specie ignote ci sono virus, batteri, funghi, protisti e altri organismi, molti dei quali parassiti. Gli specialisti oggi usano il termine «virosfera» per identificare un universo di viventi che probabilmente fa impallidire per dimensione ogni altro gruppo. Molti virus, per esempio, abitano le foreste dell’Africa centrale, parassitando specifici batteri, animali, funghi o protisti, e questa specificità limita il loro raggio d’azione e la loro abbondanza. Ebola, Marburg, Lassa, il vaiolo delle scimmie e il precursore dell’HIV sono un campione minuscolo di quel che offre il menù, della miriade di altri virus non ancora scoperti che in alcuni casi stanno quieti dentro ospiti a loro volta ignoti. I virus riescono a moltiplicarsi solo all’interno delle cellule vive di qualche altro organismo, in genere un animale o una pianta con cui hanno instaurato una relazione intima, antica e spesso (ma non sempre) di mutuo soccorso. Nella maggioranza dei casi, dunque, sono parassiti benevoli, che non riescono a vivere fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Ogni tanto uccidono una scimmia o un uccello qua e là, ma le loro carcasse vengono rapidamente metabolizzate dalla giungla. Gli uomini non se ne accorgono quasi mai.

Tre. Oggi però la distruzione degli ecosistemi sembra avere tra le sue conseguenze la sempre più frequente comparsa di patogeni in ambiti più vasti di quelli originari. Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa o estinguersi.


Roberto Deidda Damus


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